C’era una volta la ristorazione italiana
Diciamocelo in faccia, oramai il settore della ristorazione è in crisi.
È inutile nascondersi dietro ad un dito, ma mai come ora, lavorare in questo settore è diventato così difficile e, salvo qualche raro caso, il futuro non sarà così roseo, anzi, se non verrà supportato seriamente dalle istituzioni, tale comparto farà un balzo indietro di quaranta anni, restando nettamente fuori passo rispetto ad altre nazioni, magari non storicamente vocate alla cultura del cibo ma con uno stato presente e consapevole che l’indotto turistico enogastronomico e agroalimentare va protetto e sostenuto, partendo appunto dal welfare.
Possiamo andare avanti e fare finta di niente, continuare a dimostrarci forti, di marmo, sempre con il sorriso, rassicurando tutti che va tutto bene e nascondendo al tempo stesso le mille chat tra associazioni e colleghi che sembrano essere diventati dei centri di collocamento. Oppure possiamo fare emergere il problema a livello pubblico e chiedere a chiunque possa rappresentare a livello istituzionale il nostro settore, associazioni di categoria comprese, di interloquire con le cariche di stato in grado di affrontare questo problema.
Si perché è un problema.
Il collega Alessandro Borghese, sottoscritto anche da altri imprenditori (tra cui Flavio Briatore) e da altri colleghi anche stellati Michelin, ha esposto i fatti su come la stiamo vivendo noi ristoratori, mettendo in luce questa crisi globale. Due anni di Covid non hanno solo messo in difficoltà per primo il nostro settore, non ci ha messo duramente alla prova resistendo e reinventandoci per sopravvivere, ma ha fatto esplodere quella che era la bolla gonfiata a dovere negli anni pre pandemia dai mille programmi televisivi “Star Chef pret a porter”.
Assaporare una vita normale nei mesi di chiusure forzate ha destabilizzato fortemente chi fino a prima aveva investito la propria carriera nella ristorazione, il reddito di cittadinanza o altre forme di sussidio e assistenzialismo non hanno di certo aiutato la ripartenza. Improvvisamente tutti coloro che fino a inizio 2020 lavoravano in sala e in cucina si sono volatilizzati, alla ricerca di un impiego migliore con orari compatibili con una vita “normale” o addirittura cambiato completamente mestiere.
Finalmente è emerso il vero problema della ristorazione tenuto nascosto da sempre, vita completamente dedita al lavoro, zero rapporti sociali. Inizialmente perché bisogna imparare un mestiere e la gavetta in cucina si sa è tra le più dure fisicamente e psicologicamente, poi perché se dovessimo calcolare l’effettivo costo di un piatto includendo tasse, tredicesime, quattordicesime, ferie pagate di tutte le persone che ci lavorano oltre a tutto il resto, sicuramente i quindici euro della cacio e pepe servita in ristorante si farebbe prima a regalarla. Oppure l’euro e venti del caffè al bar potrebbe tranquillamente essere offerto tanto è ridicolo l’ammontare dei costi per tenere in piedi un locale di chi vuole solo lavorare bene e fare felice la gente attraverso il cibo o il beverage. E il lavoro, nonostante tutto, non manca, anzi è aumentato.
Ma da sempre, dare una vita lavorativa e sociale dignitosa non ha mai trovato spazio nella ristorazione, e più si sale di livello e più è sempre stato tutto così disumano. Contratti di lavoro precari, incertezze di stabilità. Perché gli chef o i titolari sono dei sadici? Perché a chi gestisce la baracca piace vedere soffrire i propri dipendenti ed essere orgogliosi della vita altrui dedicata al proprio ristorante? No, semplicemente perché non può permettersi i costi di una doppia brigata di sala e di cucina per poter dare a tutti le famose otto ore, altrimenti, siamo sinceri, quanto vi costerebbe un piatto di pasta? Improponibile per tutti! E se lo stato non interviene seriamente non ci sono molte alternative.
Una volta aperto il vaso di pandora ci si è scoperti fragili. Dall’altra parte non ci è voluto molto per rendersi conto che tutto è cambiato velocemente. Come se in una stanza, in un batter d’occhio ci si ritrova da mille a dieci persone, facendo sembrare quei quattro muri vuoti. I pochi rimasti ovviamente prima competono, poi si uniscono per far capire a tutti che il coltello dalla parte del manico ce l’hanno loro, vengono abbagliati da alettanti promesse, magari da posizioni ambiziose ma poi mai mantenute, o da qualche centinaio di euro in più che purtroppo non porta da nessuna parte, anzi mette i ristoratori uno contro l’altro per rubarsi l’un l’altro qualcuno di quei dieci rinchiusi in quella stanza. Quando in questi ultimi anni, stavamo andando così bene, diventando quasi amici tra ristoratori. Stavamo diventando fieri di essere cuochi, chef , sommelier, camerieri, maitre di sala. Iniziavamo tutti a fare squadra.
Ebbene si, queste crisi servono proprio a questo, forse a resettare e a gettare le basi per qualcosa di veramente solido, strutturato e condiviso. Possiamo parlare di fattore umano quanto vogliamo, possiamo parlare di progettualità, di carriera, di lavorare per il curriculum, di mille modi per rendere la vita delle persone che lavorano in cucina e in sala il luogo ideale dove dedicare qualche anno della propria vita diventando magari parte fondamentale del team.
Ma poi, se regna la regola del tutto e subito e non c’è più la voglia di darsi del tempo, la moneta più preziosa, per costruirsi una figura all’interno dell’azienda, o ancora peggio mandare il curruculum a caso alla ricerca di non si sa che cosa, e tu titolare non hai i mezzi per sostenere questa incalzante follia, a qualche compromesso bisogna pure arrivare. Altrimenti, semplicemente, ne trarranno vantaggio grandi compagnie, grandi hotel, grandi fondi d’investimento, grandi case storiche, facendo soffocare lentamente tutta quella ristorazione vibrante “homemade” che ha reso interessante mangiare in Italia negli ultimi vent’anni e che ha portato in auge la gastronomia italiana nel mondo.
La colpa non è di quei dieci rimasti nella stanza, è naturale istinto all’opportunità.
Il problema è che tali scelte affrettate non portano da nessuna parte, non si costruisce nulla, la bussola è persa. Al grido di “Troverò sempre qualcuno che mi offrirà qualcosa in più” si droga all’inverosimile il sistema. Così non si rigenera l’animo, lo si logora.
Avessero detto a quelli della mia generazione, magari già in quinta all’istituto alberghiero “Lavorerai 4 giorni e mezzo alla settimana, otto ore al giorno, per tre milioni di lire (1500€) da subito, appena uscito da scuola” credo che le iscrizioni sarebbero aumentate esponenzialmente facendo diventare il mestiere del cuoco il nuovo modello di carriera da imitare. Altro che avvocato o dottore. “Vai a fare il cuoco che guadagni bene la tua vita, da subito.”
In realtà, negli anni novanta, fare il cuoco era un po’ visto come essere l’ultima ruota del carro, alla pari del manovale, per arrivare ad ambire ad essere chef di cucina, di quelli che si leggevano nei libri ed avere uno stipendio decente ne dovevi spalare ed ingoiare. Sei su sette e quindici ore filate, se ti andava bene.
Anche perché se non hai l’esperienza per fare l’artigiano, perché non dimentichiamo che siamo degli artigiani per primo e commerciali poi, puoi chiedere tutti i soldi che vuoi sulla carta, avanzare proposte folli ma poi se i numeri non ci sono, sarà proprio quel castello di carta a crollare su di te.
Allora perché con questo nuovo cambiamento post pandemia verso una nuova umanizzazione del nostro settore per la prima volta gli istituti alberghieri statali e privati segnalalo cali drastici nelle iscrizioni arrivando addirittura a chiudere dei corsi e dimezzare le classi?
Che cosa non funziona ancora? Che cosa hanno capito le nuove generazioni?
Che fare il cuoco o il cameriere comporta sacrificio, dedizione, umiltà, rispetto, lavorare quando gli altri si divertono?
Che le ambizioni non vanno d’accordo con le lancette dell’orologio, a prescindere?
O stanno sparendo anche le ambizioni?
O forse stanno solo dirottando verso altri settori, più socialmente compatibili con la vita?
Vero è che, in qualsiasi settore, se si vuole fare carriera bisogna lavorare sodo, non bastano di certo le settimane da quaranta ore. E più si sale di livello, più si lavora per amore del proprio lavoro. Non è un gran stile di vita certamente ma dipende tutto da come si vuole disegnare il proprio futuro. L’iter professionalizzante per una carriera importante nel nostro settore non ha mai coinciso sempre con vita sociale.
Per questo lo Stato deve intervenire seriamente, defiscalizzando dove possibile, incentivando così le aziende ad offrire opportunità di carriera certe e programmate, stipendi e orari in linea con gli altri paesi europei. Solo così si eviterà di dover far pagare il prezzo ad ogni singolo cliente di tutto questo sistema drogato, oltre che dall’inflazione, da un inevitabile adeguamento dei canoni europei più virtuosi di welfare aziendale.
Basta guardare ad esempio in Francia o i paesi nordici cosa offrono loro a pari posizioni e cosa offriamo noi. Lo Stato è intervenuto, ha capito il problema. Sta salvaguardando l’indotto turistico enogastronomico.
Può essere la svolta della ristorazione per dare dignità a tutti coloro che ci lavorano tutelando ogni singolo aspetto di un rapporto di lavoro sano, sereno e stimolante. Ma lo Stato deve esserci, aiutarci.
Altrimenti, nei prossimi anni, per cercare di abbattere i costi si ritornerà alle aziende strettamente familiari, che resteranno sinonimo di costanza e garanzia nel tempo, ma difficilmente in grado di sostenere un settore che ha bisogno di struttura, competenze, innovazione e sviluppo per poter competere in un mondo che cambia continuamente alla velocità della luce e di cui noi abbiamo la fortuna di custodire una porzione così grande e così preziosa del nostro “Made in italy”
Nicola Dinato